La prof.ssa Tiziana Lazzarotto: “Con le pazienti incinte può essere discussa la possibilità di interrompere la gravidanza in caso di gravi compromissioni cerebrali nel feto”
Bologna – Per l'infezione congenita da Citomegalovirus non si conoscono trattamenti prenatali efficaci e sicuri per prevenire la trasmissione dalla madre al feto, né per ridurne le conseguenze, poiché i farmaci disponibili sono estremamente dannosi per il feto. La mancanza di una cura rende quindi inutile lo screening prenatale? Uno studio, pubblicato da un team internazionale sulla rivista The Lancet – Child and Adolescent Health, sostiene di no, e nel gruppo di esperti è presente anche un'italiana, la prof.ssa Tiziana Lazzarotto, responsabile del Laboratorio di Virologia della U.O. di Microbiologia presso il Policlinico Sant'Orsola, Università di Bologna.
L'infezione congenita da Citomegalovirus (cCMV) è la principale causa di ipoacusia neurosensoriale e di sequele neurologiche di origine infettiva, e ha una prevalenza mondiale dello 0,7%, di gran lunga maggiore rispetto a tutte le condizioni per le quali viene offerto lo screening alle donne in gravidanza; eppure il counseling è pressoché assente in tutto il mondo. Il virus, appartenente alla famiglia degli herpesviridae, è un agente infettivo molto comune, che viene trasmesso verticalmente da madre a feto. L’infezione materna viene classificata come primaria quando è acquisita per la prima volta durante la gravidanza in una donna precedentemente sieronegativa, e non-primaria quando avviene per riattivazione del virus latente o per reinfezione da un nuovo ceppo in una donna che aveva già contratto l’infezione. Nei Paesi con elevata prevalenza, oltre il 90% dei casi sono correlati a infezioni materne non-primarie; nei Paesi a bassa densità di popolazione, dove la prevalenza del Citomegalovirus è bassa o intermedia, circa la metà delle infezioni è invece materna primaria.
“Rispetto alle donne nella popolazione generale, quelle sieronegative nella loro prima gravidanza hanno un rischio 19 volte maggiore di contrarre l'infezione e un rischio 5 volte maggiore di dare alla luce, nelle successive gravidanze, un bambino con sequele correlate”, spiega la prof.ssa Lazzarotto. “Le sequele a seguito di infezione materna primaria sono osservate solo quando l'infezione si verifica nel primo trimestre di gravidanza, e in questa circostanza le conseguenze possono essere severe se il virus è trasmesso attraverso la placenta dalla madre al feto. In particolare possiamo avere deficit neurologici fino al 32% dei casi e perdita dell'udito fino al 23% dei casi”.
La diagnosi prenatale viene effettuata mediante la ricerca del DNA virale – con il test molecolare PCR (Reazione Polimerasica a Catena) Real Time – nel liquido amniotico prelevato mediante amniocentesi almeno 8 settimane dopo il presunto inizio dell'infezione materna primaria; questa procedura ha una sensibilità molto elevata, del 90% circa. Nel restante 10% dei casi l'amniocentesi è negativa per il CMV, il neonato alla nascita ha un'infezione congenita asintomatica e non a rischio di comparsa di sequele tardive CMV-correlate.
Sebbene i neonati con gravi anomalie strutturali cerebrali che potenzialmente potrebbero essere rilevati dall'ecografia morfologica prenatale (ventricolomegalia, iperecogenicità cerebrale, calcificazioni intracraniche, lissencefalia, microcefalia) abbiano una prognosi sfavorevole, solo il 20% dei neonati sintomatici, compresi quelli più gravi, sono identificati eseguendo solo lo screening ecografico. Invece, dopo una diagnosi sierologica prenatale e un'amniocentesi positiva a 23 settimane di gestazione, l'ecografia identifica fino al 90% dei casi che sviluppano sequele postnatali; ancora di più ne vengono rilevati aggiungendo una risonanza magnetica a 28–32 settimane.
Uno studio francese sulla somministrazione materna del farmaco antivirale valaciclovir ad alte dosi per il trattamento di feti con infezione sintomatica da CMV ha suggerito che la percentuale di neonati asintomatici fosse più elevata rispetto a una coorte storica (l'82% contro il 43%); un altro studio italiano ha osservato che in assenza di un trattamento prenatale validato, l'informazione preventiva e la modifica dei comportamenti con l'applicazione di norme igienico-sanitarie avevano come effetto una riduzione di sei volte l'incidenza dell'infezione materna primaria da CMV (il 7,6% contro l'1,2%). Un'analisi economica negli Stati Uniti, infine, ha riportato che lo screening sierologico materno universale sarebbe conveniente se una strategia di prevenzione potesse portare a una riduzione della trasmissione madre-feto di oltre il 47%. Quindi, implementare lo screening sierologico del CMV nel primo trimestre di gravidanza, nei Paesi a condizioni igienico-sanitarie avanzate, significherebbe identificare fino al 50% di tutti i casi correlati all'infezione primaria materna, ritrovando la positività degli anticorpi IgM in circa il 2-5% della popolazione.
“L'amniocentesi è un test che comporta una prevalenza di perdita fetale inferiore a 1 su 1.000, mentre il tasso di trasmissione verticale del Citomegalovirus, in caso di infezione primaria materna, è superiore al 30%. La diagnosi nel feto può essere eseguita quindi mediante il test di PCR Real Time nel liquido amniotico, test ad elevata sensibilità e specificità”, sottolinea la prof.ssa Lazzarotto. “In assenza di un trattamento validato da trial clinici randomizzati, per evitare la trasmissione al feto o per trattare efficacemente i feti con l'infezione sintomatica, è giustificabile mettere in apprensione le donne in gravidanza rispetto all'esistenza di un altro rischio? L'infezione cCCV rappresenta davvero una seria preoccupazione e perciò riteniamo che le informazioni fornite dallo screening siano giustificate e che a tutte le donne in gravidanza debba essere data questa facoltà di scelta”.
Lo screening sierologico identifica le donne sieronegative per CMV nella loro prima gravidanza e le istruisce ad applicare le norme igienico-sanitarie efficaci al fine di evitare o ridurre il rischio di infezione primaria da Citomegalovirus nel primo trimestre di gestazione, e questo non solo durante la prima gravidanza ma anche in quelle successive. Se l'esame sierologico nel primo trimestre riconosce una donna con infezione primaria, questo può essere seguito da una diagnosi prenatale e da una risonanza magnetica mirata, proprio per identificare i feti con infezione cCMV e prognosi sfavorevole; inoltre, consente comunque di offrire un migliore follow-up postnatale e una possibilità di trattamento, appropriato e in tempi corretti, del neonato infetto sintomatico, con il valganciclovir, farmaco specifico per il Citomegalovirus.
“Anche se non è ancora possibile fornire durante la gravidanza un trattamento validato, con le pazienti può essere discussa la possibilità di interrompere la gravidanza in caso di gravi compromissioni cerebrali nel feto”, conclude la prof.ssa Lazzarotto. “Essere informate sull'esistenza dell'infezione congenita da Citomegalovirus rappresenta oggi l'unica possibilità per poter attuare la prevenzione dell'infezione primaria materna, ridurre così il rischio di trasmissione materno-fetale e annullare la possibilità di avere neonati con gravi sequele”.
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