In Inghilterra e Francia è disponibile da diversi anni. Uno studio condotto a Padova e Monza testimonia la fattibilità e necessità di un simile programma in Italia
Secondo le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), lo screening costituisce un ambito all'interno del quale si applica uno specifico test ad una popolazione, al fine di identificare gli individui a rischio per una data malattia e poter procedere con i relativi controlli e trattamenti. In poche righe, quindi, si definisce il principio di utilità di un simile test, soprattutto quando eseguito in età neonatale, giustificandone i costi di applicazione in rapporto ad un 'serbatoio' di popolazione potenzialmente molto esteso.
L’anemia falciforme (SCD) è tra le malattie ereditarie più comuni e, secondo recenti stime, ammontano a circa 25.000 le persone affette in tutta Europa. La principale caratteristica della patologia è la presenza di una variante patologica dell’emoglobina, la cosiddetta HbS, che prende origine da una mutazione puntiforme sul gene beta-globinico: un difetto che all'apparenza potrebbe sembrare di scarsa gravità ma che, invece, ha conseguenze rilevanti: i globuli rossi assumono una forma a falce e sono più rigidi, divenendo perciò la principale causa delle due più classiche manifestazioni della malattia: le crisi occlusive acute, con formazione di trombi e rischio di ictus, e l’anemia emolitica.
La malattia richiede un trattamento di lunga durata, controlli ripetuti e un follow-up costante per monitorare le possibili complicanze d’organo ad essa correlate: per questo, un corretto piano di assistenza prevede anche un protocollo di screening neonatale (NewBorn Screening, NBS) poiché, in accordo con le definizioni dell’OMS, l’identificazione precoce dei bambini affetti dalla malattia è necessaria per avviare quanto prima un percorso terapeutico.
Secondo una revisione da poco apparsa sulla rivista International Journal of Neonatal Screening le prime Nazioni ad introdurre uno screening neonatale per l’anemia falciforme sono state il Regno Unito e la Francia. L’Inghilterra ha fatto da apripista, seguita poi dalla Scozia, dal Nord Irlanda e dal Galles. I flussi migratori e l’aggiornamento delle politiche sanitarie si sono rivelati fattori determinanti per l’avvio di questo programma che, guardando ai numeri, pare proprio funzionare efficacemente. Tra il 2005 e il 2017 sono stati identificati 3.686 bambini con anemia falciforme su 8 milioni di esaminati. In Francia, tra il 1995 e il 2014, ne sono stati individuati 7.644 su oltre 5 milioni di esaminati. Sono numeri che confermano la solidità, e soprattutto la validità, di un processo di screening neonatale che rappresenta il primo passo sulla strada di un percorso terapeutico prezioso per i pazienti ed economicamente vantaggioso per i vari sistemi sanitari nazionali. Non va infatti dimenticato che il 5% della popolazione mondiale è portatrice di una variante emoglobinica grave.
E in Italia? Nello stesso articolo si legge che il sistema sanitario italiano presenta un certo grado di frammentarietà sul piano regionale e, pur essendo divenuto obbligatorio lo screening neonatale esteso per oltre 40 patologie rare, il discorso non comprende le emoglobinopatie, e quindi l’anemia falciforme, che poi rappresenta la malattia ereditaria del sangue per cui ha più valore un tale piano di screening. Sono stati avviati, fino ad oggi, solo programmi pilota ristretti a singoli centri, specie nel Nord Italia, in Friuli Venezia Giulia e in alcune aree dell’Emilia Romagna (Modena e Ferrara). Purtroppo, per solleticare l’interesse delle istituzioni e adottare nuove e aggiornate politiche sanitarie che includano anche l’anemia falciforme nei programmi di screening sono necessari più dati.
In quest’ottica, due gruppi di studio italiani degli ospedali universitari di Padova e Monza hanno pubblicato sulla rivista Pediatric Blood & Cancer i risultati di uno studio nel cui contesto è stato proposto, ai genitori seguiti dalle cliniche ginecologiche dei rispettivi ospedali, lo screening neonatale per l’anemia falciforme. I campioni sono stati raccolti tramite il prelievo di una goccia di sangue dal tallone del neonato, depositata su schede Guthrie e successivamente esaminata in HPLC (cromatografia liquida ad alta prestazione). Nei campioni positivi a questa prima fase di esame è stata eseguita l’analisi molecolare del gene beta-globinico.
I ricercatori sono riusciti ad arruolare 5.466 neonati, da 5.439 dei quali è stato ottenuto un consenso informato a procedere. I dati raccolti hanno permesso di stabilire un’incidenza simile a quella evidenziata dai programmi di screening neonatale per l’anemia falciforme a livello europeo e americano. Anche l’incidenza dei portatori era ben allineata alle medie europee e statunitensi. Tutti i pazienti con anemia falciforme avevano un background familiare sub-sahariano; il 15% dei portatori di HbS era caucasico (nazionalità italiana e albanese) e il 10% di altre aree (Nord Africa, India, Sud America).
Si tratta, quindi di risultati estremamente significativi, in quanto mettono in chiara luce la fattibilità di un programma nazionale di screening neonatale per l’anemia falciforme, aperto a più centri dislocati su tutto il territorio italiano. Inoltre, forniscono preziose informazioni sull'epidemiologia della patologia e sulla diffusione della variante emoglobinica HbS, sottolineando al contempo l’elevata incidenza di pazienti e portatori della malattia.
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