Il prof. Giovanni Palladini (Pavia): “Abbiamo tante ‘armi’ in sviluppo contro la patologia, che stiamo valutando e che ci fanno ben sperare”
Il Centro per l’Amiloidosi del Policlinico San Matteo di Pavia è stato fondato nel 1986 dal prof. Giampaolo Merlini, e dal 2016 a dirigerlo è il prof. Giovanni Palladini (clicca QUI o sull’immagine per guardare la video-intervista). Il Centro ha due peculiarità: la prima è di essere esclusivamente dedicato all'amiloidosi, con una squadra multidisciplinare composta da internisti, medici di laboratorio, cardiologi, neurologi ed ematologi.
La seconda caratteristica, come spiega il prof. Palladini, è quella di coniugare sempre l'assistenza e la ricerca: “Il nostro laboratorio di ricerca è a pochi passi dall'ambulatorio, e questo ci permette da un lato – come ha sempre detto il mio maestro, il prof. Merlini – di trarre ispirazione continua dai pazienti, di trasformare in modo immediato le idee che ci vengono dai pazienti in progetti di ricerca, e dall'altro di portare loro, appena possibile, i progressi che riusciamo ad ottenere nel nostro laboratorio”.
Oggi, infatti, oltre alle opzioni terapeutiche già disponibili, per l'amiloidosi AL sono in corso diverse sperimentazioni. “Una di queste riguarda le immunoterapie passive, cioè gli anticorpi contro i depositi di amiloide: questo ci permetterebbe di colpire la malattia da un altro punto di vista, mentre la terapia contro le plasmacellule fa effetto”, prosegue Palladini. “Ma stiamo anche cercando di migliorare la terapia rivolta contro le plasmacellule, usando delle nuove strategie e cercando di inibire alcuni oncogeni, almeno in una parte dei cloni plasmacellulari che stanno alla base dell'amiloidosi AL e sono coinvolti nella patogenesi della malattia. Un'altra opzione è usare altri tipi di immunoterapia, non diversi dal daratumumab ma sempre basati su anticorpi che colpiscono altre molecole sulla superficie delle plasmacellule”.
Immunoterapie ancora più avanzate possono utilizzare le cellule T per colpire le plasmacellule (un approccio chiamato CAR-T). “Abbiamo tante ‘armi’, in diverse fasi di sviluppo, che stiamo valutando e che ci fanno ben sperare”, conclude Palladini. “Uno dei compiti dei centri di riferimento è consentire ai pazienti l'accesso a tutte le sperimentazioni che sono in corso, in maniera che si possa utilizzare il nuovo standard di cura e dare a tutti l'opportunità di fare qualcosa in più quando ce n'è bisogno”.
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