Si tratta di una patologia rara, ma in Italia manca un registro dei pazienti
L’acromegalia si manifesta solitamente tra i 20 e i 40 anni ed è una condizione rara, con una prevalenza di 40-70 casi per milione di abitanti. Si tratta di una patologia lenta e insidiosa, dovuta, nella maggior parte dei casi, ad un tumore ipofisario che determina una serie di sintomi da interessamento sistemico, tra cui i più frequenti sono ingrossamento di mani e piedi, sudorazione intensa, cefalea, artrite e irregolarità mestruali. La diagnosi è spesso tardiva, circa 8-10 anni dopo l’insorgenza del tumore ipofisario, quando compaiono segni clinici evidenti.
“Si tratta di una malattia di difficile diagnosi – ha spiegato Fabiola Pontello, Presidente ANIPI-Associazione Nazionale Italiana Patologie Ipofisarie – che troppo spesso viene confusa con altri disturbi. Io stessa sono stata trattata solo per i singoli sintomi. Per arrivare alla diagnosi c'è voluto molto tempo, ma nel frattempo il mio corpo cambiava e io stavo male. Solo con una diagnosi precoce e una corretta terapia è possibile, per noi pazienti, ottenere una buona qualità di vita. Per questo motivo ANIPI Italia, membro della WAPO (World Alliance of Pituitary Organizations), fa il possibile per diffondere la conoscenza di questa patologia.”
“I pazienti italiani sono tanti – spiega Pontello – ma non siamo in grado di avere una stima concreta di quanti siano effettivamente. Questo perché la nostra patologia non è ufficialmente inserita nell’elenco delle malattie rare, e non abbiamo un registro nazionale. Anche per quanto riguarda il codice di esenzione, a noi viene attribuito un codice per patologia cronica (codice 001). Sebbene i pazienti, una volta ottenuta la diagnosi, siano correttamente presi in carico dai centri di riferimento italiani, esiste ancora un grave problema di ritardo diagnostico: se l’acromegalia fosse riconosciuta come malattia rara probabilmente ci sarebbe molta attenzione in più.”
Nel caso dell’acromegalia, il ritardo diagnostico è stimato in 6, persino 8 anni dalla comparsa dei primi sintomi. Il che significa che i pazienti, nel frattempo, non vengono trattati adeguatamente o vengono trattati in ritardo, accumulando un maggior rischio di vedere la propria vita ridotta sino a 10 anni e un tasso di mortalità doppio rispetto alla popolazione generale della stessa età. Per questo è fondamentale una diagnosi corretta, ma anche un costante follow up.
L’iter diagnostico procede da un’accurata valutazione clinica fino alla conferma biochimica (con dosaggio di GH e IGF-1) e radiologica (attraverso risonanza magnetica con mezzo di contrasto). In un quadro complesso come quello che caratterizza questa patologia diventa fondamentale un approccio medico multidisciplinare, che permette non solo una corretta diagnosi, ma anche la definizione di un trattamento personalizzato sui bisogni del paziente e di un adeguato percorso di follow-up.
Le terapie attualmente disponibili vanno valutate sulla base di ogni singolo caso e possono essere sia di tipo farmacologico che chirurgico, o in combinazione. “Fortunatamente, con la terapia (che deve essere seguita per tutta la vita) la qualità della vita è buona, ma certamente c’è tanto che si potrebbe migliorare”, prosegue Pontello. “All’estero, ad esempio, non sono rari gli esempi di terapia a somministrazione domiciliare. Durante l’ultimo congresso della WAPO, svoltosi a Buenos Aires qualche settimana fa, sono stati presentati dei protocolli di terapia domiciliare gestiti da personale infermieristico specializzato in endocrinologia. Un numero significativo di pazienti ha la necessità di sottoporsi a iniezioni sottocutanee quotidiane, ma non tutti sono in grado di gestire autonomamente tali iniezioni. Un programma di somministrazione domiciliare, o comunque di educazione e supporto da parte di personale infermieristico specializzato, potrebbe essere di grande aiuto.”
“Al congresso internazionale WAPO si è parlato molto di accesso alle cure – conclude Pontello – e posso certamente affermare che il nostro Servizio Sanitario Nazionale, a differenza di altri, ci permette un accesso alle terapie completo ed efficiente. Tuttavia c’è ancora molto da fare, soprattutto per diffondere la conoscenza della malattia e permettere a chi ne è affetto di risparmiare anni di sofferenza, in attesa di una diagnosi che tarda ancora troppo ad arrivare.”
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