L’adenocarcinoma del pancreas rappresenta, a livello globale, l’ottava causa di morte per cancro tra gli uomini e la nona tra le donne. Nel nostro paese, l’incidenza di questo tipo di tumore è in leggera crescita (rispettivamente, +0.8%/anno nei maschi e +2,0%/anno nelle femmine) ed i fattori di rischio più comuni comprendono il fumo, diverse patologie tra le quali la pancreatite cronica non-ereditaria, il diabete mellito e alcune sindromi familiari come la sindrome di Peutz-Jeghers e la sindrome di Lynch. Anche le mutazioni della linea germinale legate al gene BRCA2 contribuiscono ad aumentare il rischio di tumore, ma la mutazione più frequentemente associata al cancro del pancreas (riscontrabile in più del 90% dei casi) è quella del gene KRAS, che si configura come una delle caratteristiche principali dell’adenocarcinoma pancreatico insieme alla propensione per l’invasione locale e per la metastatizzazione, la comparsa di un’estesa reazione stromale desmoplastica e l’evasione della risposta immunitaria tumorale.

L’individuazione e la definizione delle forme pre-invasive più diffuse è il primo passo per comprendere i meccanismi di tumorigenesi pancreatica: nello specifico, sia nelle lesioni che toccano i dotti più piccoli (neoplasie pancreatiche intraepiteliali, PanIN) sia in quelle che interessano i dotti di maggiori dimensioni (neoplasie intraduttali papillari mucinose, IPMN) sono stati osservati alti tassi di mutazioni legati a KRAS (dal 40 al 65% nelle IPMN, che si accompagno ad un più alto rischio di sviluppare tumore).

Nelle PanIN di grado più alto si incontrano frequentemente anche altri tipi di mutazione, come l’inattivazione di CDKN2A, p53 e SMAD4, che confermano il ruolo delle mutazioni KRAS nella progressione tumorale. Ad ulteriore conferma del suo valore prognostico è stato osservato che la perdita di espressione di KRAS comporta un aumento dell’apoptosi e un arresto della proliferazione cellulare che si traducono in una consistente regressione tumorale.

Che le mutazioni in KRAS siano un passaggio quasi obbligato nella carcinogenesi pancreatica è dato anche dal ruolo che esse ricoprono nell’approvvigionamento del tumore: KRAS altera l’espressione degli enzimi coinvolti nell’utilizzo del glucosio promuovendo la biosintesi di nucleotidi e la glicosilazione delle proteine che sostengono la crescita del tumore e favorisce la produzione di NADPH, con un abbassamento della produzione di specie reattive dell’ossigeno citotossiche generatesi durante la proliferazione cellulare.

L’indagine della biologia tumorale e l’approfondimento del ruolo di KRAS nella carcinogenesi pancreatica sono cruciali in chiave diagnostica perché, ad oggi, non esiste uno strumento di diagnosi precoce, perciò l’individuazione delle mutazioni associate alle principali lesioni e la descrizione del loro ruolo nell’evolversi della cellula tumorale possono fornire un contributo basilare nella prospettiva di elaborare un sistema diagnostico rapido e accurato.

Infatti, nella maggior parte dei casi il cancro del pancreas è quasi asintomatico, con una sintomatologia legata alla localizzazione tumorale (il 60-70% dei tumori colpisce la testa del pancreas mentre il 20-25% colpisce il corpo o la coda) e i bassi tassi di sopravvivenza a 5 anni (solamente il 7% degli uomini e il 9% delle donne risultano vivi a 5 anni) contribuiscono a rendere particolarmente letale questa forma di tumore.

Il trattamento previsto si differenzia in base alla stadiazione e presuppone una distinzione tra i tumori operabili chirurgicamente, quelli non operabili e quelli metastatici. La chirurgia è l’unica opzione terapeutica veramente curativa ma la ridotta sopravvivenza a 5 anni dei pazienti, anche in quelli con un tumore di più basso grado (Stadio I e II), costringe ad associare alla chirurgia il trattamento chemioterapico adiuvante, volto ad abbassare il rischio di metastasi e ridurre il rischio di fallimento loco-regionale.

Secondo uno studio comparativo (CONKO-01), l’impiego della gemcitabina migliora la sopravvivenza a 5 anni rispetto alla chirurgia da sola (20,7% contro 10,4%) mentre il trattamento adiuvante con 5-fluoracile rispetto a quello con gemcitabina (ESPAC-3) non comporta significativi cambiamenti in termini di sopravvivenza (23 contro 23.6 mesi).

Più di recente, una combinazione di più farmaci con 5-fluorouracile, oxaliplatino, leucovorina e irinotecan (FOLFIRINOX) ha prodotto risultati interessanti in termini di sopravvivenza globale in pazienti metastatici (11,1 mesi rispetto ai 6.8 raggiunti con la sola gemcitabina). Anche la combinazione di gemcitabina e Nab™paclitaxel ha ottenuto un buon risultato con un aumento della sopravvivenza significativo rispetto all’uso della sola gemcitabina (8.5 mesi rispetto a 6.7).

Infine, all’ultimo Convegno Internazionale dell’American Society of Clinical Oncology, sono stati presentati i risultati preliminari dello studio LAP07 che confronta chemio-radioterpia e chemioterapia in tumori localmente avanzati (Stadio III), considerati non idonei alla chirurgia confermando le riserve espresse da gran parte dei ricercatori sulla terapia radiante ed evidenziando che tra i due gruppi non sussistono differenze in termini di sopravvivenza libera da malattia.

L’alta letalità di questa forma tumorale è dovuta al fatto che più del 90% dei pazienti a cui venga diagnosticata la malattia non sopravvive e il 70% muore in seguito alla diffusione di metastasi nell’organismo ma il trattamento con folfirinox, visti i promettenti risultati ottenuti nei pazienti con metastasi, è allo studio anche in pazienti con adenocarcinoma operabile chirurgicamente e localmente avanzato, con la speranza di offrire migliori prospettive ai pazienti.

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