sindromi mielodisplastiche, prof. Matteo Della PortaProf. Matteo Della Porta: “Sarà di grande aiuto per comprendere i bisogni del malato e sviluppare appropriate politiche sanitarie, anche attraverso una stima più corretta dei costi”

Quando il midollo osseo perde la sua capacità di produrre globuli rossi in quantità sufficiente per l’organismo ci si imbatte in un'anemia che può avere conseguenze molto severe. Nel caso delle sindromi mielodisplastiche (SMD) questo quadro (accompagnato anche dal calo di globuli bianchi e piastrine) si osserva molto di frequente e costituisce un problema particolarmente grave per due motivi: il primo è che questi tumori rari colpiscono sostanzialmente la popolazione anziana - nella quale non è infrequente rilevare cali di globuli rossi o emoglobina tali da determinare una condizione di anemia - e il secondo è che queste malattie possono evolvere in leucemia acuta, che difficilmente lasciano scampo ai pazienti.

“L’incidenza delle sindromi mielodisplastiche in Europa è di 1:12.000-13.000 abitanti e in Italia si registrano, ogni anno, circa 3.000 nuovi casi”, precisa il prof. Matteo Della Porta, Responsabile della sezione Leucemie dell’Unità Operativa di Ematologia dell’Humanitas Cancer Center di Milano, che non esclude, tuttavia, che questi numeri sottostimino il problema, dal momento che tanti pazienti non ricevono un corretto inquadramento diagnostico e non iniziano tempestivamente il percorso terapeutico che potrebbe migliorare la loro condizione.

“La SMD è una patologia dell’anziano”, riprende Della Porta. “Le mielodisplasie hanno un’età di insorgenza mediana di 75 anni, alla quale un’alterazione dell’emocromo può sembrare fisiologica: tuttavia non è sempre così, perché è stato dimostrato che l’anemia dell’anziano ha rischi di morte aggiuntivi rispetto alle patologie note più importanti. Il bacino dove cercare le mielodisplasie è quindi gigantesco e, per tale ragione, è fondamentale capire quali siano le caratteristiche distintive dei pazienti”. Per studiare approfonditamente le manifestazioni cliniche della malattia, le cause di morte e la qualità di vita dei pazienti, la Rete Ematologica Lombarda (REL), la Fondazione Italiana Sindromi Mielodisplastiche (FISM) e il Gruppo Romano per lo studio delle Sindromi Mielodisplastiche (GROM) hanno completato la prima mappatura sul territorio nazionale di queste patologie. Avvalendosi del supporto dei centri ematologici di eccellenza, dei presidi ospedalieri e delle strutture che erogano assistenza domiciliare, queste tre reti di patologia hanno allargato le loro maglie, finendo per arruolare 7.105 pazienti in 10 anni e raccogliendo un quantitativo di dati tale da fornire un preciso identikit della malattia, che, come spiega il prof. Della Porta, coordinatore del progetto, “sarà di grande aiuto per comprendere i bisogni dei pazienti e sviluppare appropriate politiche sanitarie, anche attraverso una stima più corretta dei costi, in termini assistenziali e farmacologici”.

Il primo risultato emerso dalla valutazione è che sebbene le sindromi mielodisplastiche colpiscano anche una bassa frazione (6%) di persone al di sotto dei 50 anni, la maggiori parte dei pazienti è anziana, e questo determina anche una stretta associazione (nell'80% dei casi) con altre patologie, specialmente di tipo cardiovascolare (49%) e respiratorio (13%), che aumentano il rischio di morte. Più dell’80% dei pazienti ha un basso rischio di evoluzione leucemica (43% dei pazienti sono a basso rischio e 40% a rischio intermedio-1, secondo il sistema IPSS), con problemi clinici legati a insufficienza midollare e anemia. L’anemia è una problematica che affligge la quasi totalità dei pazienti fin dalla diagnosi e, in circa un caso su 2, diventa di grado severo nel corso della malattia. In circa il 25-30% dei pazienti, i problemi clinici dipendono fondamentalmente dall’evoluzione leucemica della SMD, con una marcata riduzione dell’aspettativa di vita.  

“I pazienti con sindrome mielodisplastica hanno essenzialmente due problemi – conferma Della Porta – la scarsità nel sangue di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, e il rischio di evoluzione in leucemia. Vista la grande eterogeneità dei casi, è fondamentale costruire la prognosi sul singolo paziente e questo è un lavoro che va fatto in modo accurato per cercare di capire quale sia il peso della malattia, in termini sia di salute che di qualità e aspettativa di vita, nella singola persona che abbiamo di fronte. Rimane aperto, però, il problema della diagnosi. Oggi, il panorama dei nuovi farmaci si è ampliato, ma la cura può passare solo attraverso una diagnosi corretta e tempestiva”.

Negli ultimi anni, la ricerca ha compiuto passi da gigante nell’individuazione delle cause delle SMD, con la scoperta, nelle cellule staminali ematopoietiche dei pazienti, di mutazioni ricorrenti a carico di geni coinvolti, in particolare, nello splicing dell’RNA e nella metilazione del DNA. Tutto ciò ha da un lato implementato le possibilità diagnostiche, con l’inserimento della ricerca delle mutazioni geniche per queste malattie nei nuovi LEA; dall’altro, ha permesso lo sviluppo di nuovi farmaci, come gli inibitori del TGF-beta, per il trattamento dell’anemia, o i farmaci ipometilanti, che riducono il rischio di evoluzione in leucemia. Un ultimo punto molto importante è il deciso miglioramento delle tecniche di trapianto di midollo osseo, che hanno esteso il numero di soggetti che possono ricorrere a questa terapia salva vita.

“Circa un quarto dei pazienti muore per leucemia, mentre il rimanente 75-80% per complicanze legate all’anemia e alle infezioni”, prosegue Della Porta. “E’ importante curare l’anemia, prima con le trasfusioni e adesso anche con farmaci specifici, che funzionano molto bene nel paziente con mielodisplasie. Nei pazienti a rischio di progressione in leucemia acuta le cose cambiano, perché essendo molto spesso anziani, le cure tradizionali per la leucemia, come la chemioterapia intensiva e il trapianto, sono proponibili solo a una piccola fetta di soggetti in grado di tollerarle. Tuttavia, l’età a cui si può proporre il trapianto a un paziente sta aumentando: vent’anni fa, si trapiantavano solo i cinquantenni senza patologie associate; oggi si arriva a sottoporre a trapianto anche pazienti intorno ai 70 anni e con qualche comorbilità, purché in condizioni di salute relativamente buone. Pertanto, vale la pena insistere su una pronta diagnosi, perché la possibilità di avere cure efficaci per contrastare la malattia esiste ed è concreta”.

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