Prof.ssa Alessandra Iurlo (Milano): “inibendo JAK1, il farmaco riduce il corredo sintomatologico perché agisce sulle citochine; inibendo JAK2, invece, va a lavorare sulla proteina malata”

Per dare un’idea di come funzioni la medicina di precisione basta pensare alla differenza tra i protagonisti dei vecchi film western, che sparano all’impazzata un po’ ovunque, e i cecchini dei film di guerra, che con un unico colpo centrano il bersaglio. La medicina di precisione è un cecchino. E quando nell’obiettivo c’è la mielofibrosi, le pallottole più efficaci sono gli inibitori di JAK2, come ruxolitinib.

Considerata una rara malattia oncologica del sangue, la mielofibrosi colpisce le cellule staminali del midollo osseo da cui originano i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine e, nei casi più severi, può ridurre la sopravvivenza a un arco di tempo inferiore ai 2 anni. Grazie all’elaborazione di strumenti come lo score prognostico IPSS (International Prognostic Scoring System), è possibile predire l’evoluzione della malattia nel tempo, basandosi sulla presenza o meno di fattori di rischio come l’età avanzata, l’anemia, la leucocitosi, la presenza di sintomi costituzionali o di blasti nel sangue periferico. Il calcolo dell’IPSS viene comunemente utilizzato per stratificare i pazienti alla diagnosi per classi di rischio e, quindi, identificare la terapia migliore per ognuno di essi lungo tutto il decorso della malattia.

I pazienti a basso rischio, che non presentano alcuno dei fattori citati, vengono solitamente trattati con le terapie convenzionali e, addirittura, nel caso in cui siano asintomatici e non presentino alterazioni di rilievo dell’esame emocromocitometrico, possono essere tenuti solo sotto controllo attraverso periodici test clinici e di laboratorio. La maggior parte delle terapie in uso è volta al contenimento della sintomatologia e della splenomegalia ma non è esente da effetti collaterali: pertanto, nei casi meno severi, una sorveglianza attiva può essere sufficiente.

La presenza di sintomatologia o di altri fattori di rischio porta il paziente ad essere classificato come IPSS Intermedio-1 (IPSS-1) e IPSS Intermedio-2 (IPSS-2). “Il paziente a rischio IPSS Intermedio-2 è un paziente con malattia avanzata”, spiega la prof.ssa Alessandra Iurlo, Responsabile dell’Unità Operativa Semplice Sindromi Mieloproliferative presso la Fondazione IRCCS Ca' Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. “Ha un’età spesso superiore a 60 anni, può presentare anemia, leucocitosi, blastosi periferica o splenomegalia. Per questi malati, sino a non più di qualche anno fa non esistevano opzioni terapeutiche efficaci, ma solamente terapie palliative”. Un valore di emoglobina particolarmente basso, al di sotto di 10 g/dL, è il primo segnale per l’avvio di un percorso terapeutico che comprende il ricorso a corticosteroidi, ad androgeni come il danazolo, ad agenti stimolatori dell’eritropoiesi come l’eritropoietina o a farmaci immunomodulatori come la talidomide o la lenalidomide, sebbene l’uso di questi ultimi non sia ancora possibile nel nostro Paese. Anche la splenomegalia necessita di un trattamento tempestivo, che spesso consiste nel ricorso all’idrossiurea (Onco Carbide®), farmaco che non è esente da effetti collaterali talvolta importanti, quali la comparsa di afte al cavo orale, ulcere dolorose agli arti inferiori e tumori della pelle.

“Fino all’avvento degli inibitori di JAK2 non c’era altro tipo di trattamento al di fuori della terapia contenitiva con Onco Carbide® o di altre terapie di supporto come le trasfusioni o il trattamento con cortisone, a seconda della necessità”, prosegue la prof.ssa Iurlo. “I pazienti con mielofibrosi, infatti, hanno un corredo sintomatologico piuttosto importante, correlato al problema dell’attivazione citochinica [le citochine sono proteine che attivano il processo infiammatorio, N.d.R.]. In molti pazienti la milza è ingrossata, a volte in maniera notevole, tanto da arrivare ad occupare buona parte dei quadranti di sinistra dell’addome. La conseguenza è una compressione degli organi limitrofi che causa inappetenza e sensazione di ingombro post-prandiale. Questi aspetti impattano notevolmente sulla qualità di vita. Ruxolitinib si è dimostrato capace di ridurre significativamente le dimensioni spleniche; inoltre, è capace di ridurre i sintomi costituzionali, quali febbre serotina, sudorazioni notturne e calo ponderale, con netto miglioramento della qualità di vita”.

La scoperta della mutazione V617F a carico del gene JAK2 ha acceso la miccia di un filone di ricerca che ha condotto all’esplosione dei farmaci in grado di agire su un bersaglio molecolare, nello specifico in grado di colpire la proteina JAK2 e ridurne la funzionalità. “Ruxolitinib è un inibitore di JAK1 e JAK2”, conferma la prof.ssa Iurlo. “Inibendo JAK1, il farmaco riduce il corredo sintomatologico perché agisce sulle citochine; inibendo JAK2, invece, va a lavorare sulla proteina malata”. In tal modo, come emerso dai risultati degli studi clinici COMFORT-I e COMFORT-II, ruxolitinib ha prodotto risultati nettamente positivi sia nella riduzione della splenomegalia che nel contenimento dei sintomi sistemici, quali febbre, stanchezza, prurito, calo ponderale e sudorazioni notturne. “Si tratta di un farmaco ben tollerato ma, ovviamente, non è scevro da effetti collaterali a volte non trascurabili”, puntualizza l’esperta. “Può accentuare la condizione di anemia oppure aumentare il rischio infettivo andando ad agire sul profilo citochinico. Ecco perché richiede un attento monitoraggio del paziente durante il trattamento, oltre a un accurato screening preliminare volto ad identificare i soggetti da considerarsi eleggibili a tale terapia. Ciononostante, i risultati dimostrati dagli studi sono incoraggianti e fanno di ruxolitinib la scelta ideale per un individuo classificato come IPSS-2”.

Ruxolitinib è un chiaro esempio del valore della medicina di precisione che, nel caso della mielofibrosi, si esplica nella riduzione del clone neoplastico e delle dimensioni della milza, oltre che nell’alleviamento dei sintomi sistemici. Il ruolo giocato dal farmaco prodotto dalla Novartis per la terapia di pazienti a prognosi sfavorevole è centrale e permette di offrire possibili alternative al trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche, che, comunque, rappresenta ancora oggi la sola opzione terapeutica pienamente curativa della mielofibrosi. Quest’ultima procedura è tuttavia limitata a un numero circoscritto di pazienti, a causa dell'età o della presenza di comorbilità. Per tale ragione, la scelta del futuro è rappresentata da una medicina intelligente che, partendo dalla patofisiologia della malattia, sia in grado di sviluppare strumenti mirati per spegnere gli innumerevoli segnali molecolari che scatenano i meccanismi neoplastici, aiutando nel contempo a migliorare la qualità di vita dei pazienti.

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