Una ricerca italiana getta luce sull’origine della malattia, stabilendo la possibilità di nuovi approcci terapeutici
Un dolore diffuso in tutto il corpo, poi crampi e affaticamento muscolare e l’impossibilità di godere di un sonno ristoratore; magari lunghe visite mediche e tanti esami senza una risposta precisa, fino a che, alla fine, la diagnosi sembra addirittura una beffa: fibromialgia, quella patologia dalle cause ignote che per tanti anni è stata classificata come un disturbo psico-somatico e, pertanto, curata solo con antidepressivi. Oggi, la situazione sembra destinata a cambiare anche grazie al lavoro di ricerca coordinato dal prof. Claudio Lunardi, del Dipartimento di Medicina dell’Università di Verona, e dal prof. Antonio Puccetti, del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università di Genova, che ha reso possibile appurare l’esistenza di fattori autoimmuni alla base di questa malattia.
L’articolo, pubblicato sulle pagine della rivista Journal of Clinical Medicine, è firmato dalla prof.ssa Marzia Dolcino, dell’Università di Verona, e ha il pregio di indagare i percorsi molecolari che sottendono all’origine della fibromialgia da una moderna prospettiva, avvalendosi di una tecnica di indagine di tutto il genoma e restituendo ai ricercatori italiani un quadro completo e accurato della patologia. “L’innovazione del nostro lavoro sta nel fatto che esso rappresenta la prima dimostrazione sperimentale che la fibromialgia è in realtà una malattia che presenta aspetti di tipo autoimmune”, spiega il prof. Puccetti. “Esistevano già alcune evidenze indirette che lasciavano ipotizzare un fenomeno di questo tipo: per esempio, il fatto che la fibromialgia prediliga il sesso femminile, o che spesso in altre sindromi autoimmuni si riscontri una componente fibromialgica; o ancora che in percentuali variabili di pazienti siano stati identificati autoanticorpi come quelli contro i marcatori precoci della sindrome di Sjogren o della malattia tiroidea autoimmune. Tuttavia, finora, la base autoimmune della fibromialgia non era mai stata accertata”.
In effetti, questo studio cambia radicalmente le carte in tavola, perché in un qualsiasi dizionario medico, alla voce “trattamento per la fibromialgia” si leggono svariate opzioni, che comprendono farmaci anti-infiammatori, sedativi e persino antidepressivi, poiché l’incapacità di definire l’origine esatta della condizione, e la mancanza di test diagnostici affidabili, hanno contribuito a spostare la fibromialgia all’interno del più grande gruppo dei disturbi psicosomatici. “Da qualche anno, abbiamo iniziato a comprendere che questa è una sindrome complessa, con una sintomatologia che produce disautonomia, cioè alterazioni del sistema nervoso autonomo, ed è quindi causa di vuoti di memoria, confusione e vertigini”, prosegue Puccetti. “Oltre a ciò, la fibromialgia coinvolge vari organi e apparati, tra i quali il sistema gastrointestinale, quello endocrino e urinario, e può essere collegata anche ai disturbi del sonno”.
Attualmente, non esiste ancora un test di laboratorio considerato il gold-standard per la diagnosi di fibromialgia, che quindi viene effettuata sulla base di un’attenta osservazione clinica. Per tale ragione, occorre che i medici conoscano bene le caratteristiche della malattia, per non sottovalutarne le conseguenze. “Se uno specialista si trova di fronte a una sindrome dolorosa importante, con dolore diffuso e con interessamento sia articolare che muscolare, spesso collegato ad alterazioni del ritmo sonno-veglia, con presenza di problemi digestivi o intolleranza al glutine, disturbi della sfera urinaria o genitale e secchezza della bocca e degli occhi, ma senza modificazione degli indici specifici di flogosi, dovrebbe sospettare di trovarsi di fronte alla fibromialgia”, precisa il prof. Puccetti.
In questo senso, il lavoro svolto dai ricercatori italiani assume una forte rilevanza anche clinica, perché conferma una forte componente autoimmune nell’origine della malattia. “Ricorrendo ad avanzate tecniche di espressione genica, abbiamo analizzato più di 540mila geni noti, ottenendo così una mappa completa delle alterazioni presenti nel quadro fibromialgico”, specifica Puccetti. “Inoltre, siamo stati in grado di studiare una componente sostanziale che è il genoma non codificante, quello che non viene trascritto in proteine, guardando all’epigenetica che regola lo sviluppo delle malattie autoimmuni e neoplastiche. Abbiamo osservato un’aumentata espressione di geni legati alla percezione del dolore e ad altri aspetti della malattia collegati alla componente emozionale, quindi a stati di ansia o depressione e ad alterazioni del ritmo circadiano”.
Questo metodo d’indagine può essere applicato anche ad altre malattie la cui patogenesi non è del tutto definita, perché solo facendo luce sui meccanismi che danno origine a una data condizione è possibile sperare di comprendere come affrontarla. Nel caso della fibromialgia, la scoperta di una base autoimmune suggerisce un cambio di approccio terapeutico, invitando all’uso di farmaci mirati o alla messa a punto di formulazione biologiche innovative ed efficaci, specie nei casi più gravi. “Al momento, la terapia si basa soprattutto su antidolorifici e fisioterapia riabilitativa – sottolinea Puccetti – ma la fibromialgia è una malattia complessa, per la quale dobbiamo prendere in considerazione anche il possibile trattamento con farmaci steroidei o con immunosoppressori, proprio come facciamo con le malattie autoimmuni sistemiche. Va anche tenuto in considerazione se si tratti di una sindrome fibromialgica pura o associata ad altre forme autoimmuni sistemiche, quali la sindrome di Sjogren, il lupus, o l’artrite reumatoide. In generale, comunque, non è sufficiente prescrivere ai pazienti un antidolorifico – conclude l’esperto – e grazie a questo studio abbiamo capito che servono farmaci diversi, tra cui gli immunosoppressori, in grado di cambiare il corso della malattia”.
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