La distrofia muscolare di Duchenne e Becker (DMD e BMD) è una malattia rara, ovvero rientra in quelle patologie genetiche con una prevalenza che non supera lo 0,05 per cento della popolazione (ossia 5 casi su 10.000 persone), e che sono per la maggior parte incurabili. La DMD riguarda solo i maschi ma con un’incidenza abbastanza elevata, 1 su 3.300. È la più grave tra le distrofie muscolari: conduce alla completa immobilità e l’aspettativa di vita, pur raddoppiata negli ultimi anni, non supera in media i 25-30 anni. La DMD colpisce infatti in modo specifico il tessuto muscolare scheletrico, compresi i muscoli respiratori e cardiaci, ed è caratterizzata da una progressiva distruzione del tessuto muscolare che viene progressivamente sostituito da tessuto fibroso e adiposo.


I primi sintomi della patologia si manifestano intorno ai tre anni: il bambino ha difficoltà nel correre, salire le scale, saltare, e mostra il cosiddetto “segno di Gowers”, un modo particolare di utilizzare le mani poggiate sulle cosce per alzarsi da terra o dalla posizione seduta. Con il progredire dell’età, le difficoltà motorie diventano evidenti e al momento dell’ingresso nella scuola elementare il quadro clinico è chiaro: l’andatura è oramai anomala e con frequenti cadute, la camminata avviene spesso in punta di piedi.
La capacità di camminare viene mantenuta solitamente fino ai 9-12 anni, dopo di che si ha il passaggio alla sedia a rotelle che diverrà l’unico mezzo per la deambulazione. Da questo momento il bambino comincia a fare un uso intensivo dei muscoli degli arti superiori con una conseguente accelerazione della degenerazione di queste fasce muscolari. I ragazzi perdono cosi l’uso delle braccia prima dei venti anni. Come già accennato la DMD colpisce tutti i muscoli scheletrici, i muscoli respiratori (diaframma e muscoli intercostali) e il cuore che con il tempo si indeboliscono. Fin da piccoli, i pazienti Duchenne devono effettuare periodici monitoraggi ma con l’avanzare dell’adolescenza la funzionalità respiratoria e quella cardiaca vengono compromesse e diventa necessario ricorrere ad apparecchi di ventilazione assistita e a farmaci per il trattamento degli scompensi cardiaci.
Fino a qualche anno fa era molto frequente che la morte sopraggiungesse entro i venti anni di età. Ad oggi non esiste ancora nessuna cura risolutiva per la distrofia di Duchenne, ma la messa a punto di un approccio multidisciplinare, che comprende la fisioterapia, la chirurgia ortopedica, la prevenzione cardiologia e, soprattutto l’assistenza respiratoria, ha permesso di limitare gli effetti della malattia e di migliorare le condizioni di vita. In un decennio le aspettative di vita sono raddoppiate.
In Italia non esistono dati ufficiali sul numero delle persone affette dalla distrofia muscolare di Duchenne e Becker. Fino a qualche anno fa si stimava che nel nostro paese ci fossero circa 5.000 malati, ad oggi la stima è notevolmente diminuita e si fa riferimento a circa 1500 malati, con una netta maggioranza di pazienti Duchenne rispetto ai pazienti Becker. La stima mondiale di pazienti affetti da DMD e BMD è molto approssimativa ma una serie di dati aggiornati indicano che si hanno 20.000 nuovi casi all’anno nel mondo.

Tutta colpa di un gene
La distrofia di Duchenne fu descritta per la prima volta 150 anni fa dal neurologo francese Guillaume Duchenne de Boulogne, e le sue basi genetiche sono state identificate nel 1986 riconducendole a mutazioni nel gene della distrofina. Questo gene, il più grande conosciuto nel nostro DNA, è collocato sul cromosoma X e questo spiega la trasmissione legata al sesso. La distrofia di Duchenne è una malattia che nei maschi (che possiedono un cromosoma X ed uno Y) si manifesta pienamente, mentre nelle femmine (che possiedono 2 cromosomi X) la sintomatologia è molto ridotta per via di una compensazione con la presenza di una forma normale del gene sul secondo cromosoma X. Le donne vengono definite come “portatrici sane”, ovvero non sviluppano la patologia, anche se esistono rari casi in cui le donne con la mutazione hanno una riduzione della forza muscolare generica e vanno incontro ad alcuni problemi cardiaci intorno ai 50 anni.

Le distrofie muscolari di Duchenne e Becker (BMD) rientrano nella categoria delle distrofinopatie, ovvero quelle malattie muscolari causate da un difetto della distrofina. Questa proteina si trova ancorata sulla faccia interna della membrana delle fibre muscolari, tramite un complesso di molte altre proteine, e funge da collegamento strutturale tra la membrana e i filamenti contrattili delle fibre. La distrofina ha un ruolo determinante per la stabilità meccanica della membrana durante la contrazione muscolare. L’assenza, o il malfunzionamento, della distrofina va ad intaccare l’integrità della membrana: si creano dei “buchi” che rendono la struttura instabile e permeabile a sostanze che normalmente non possono entrare nella cellula muscolare. A livello cellulare, si crea un flusso anomalo costituito da sostanze fondamentali per la funzionalità del muscolo che escono e sostanze dannose, come il calcio, che entrano.

Questa situazione porta velocemente ad un’esplosione e morte delle cellule muscolari, un processo che oltre alla distruzione delle fibre muscolari causa una fuoriuscita del contenuto cellulare che viene riconosciuto e attaccato come corpo estraneo dal sistema immunitario. L’attacco effettuato dalle “cellule sentinella” è molto efficiente, sin troppo, provvede infatti alla "ripulitura" di una zona del muscolo che risulta essere più larga del necessario. Il sistema immunitario provoca così un danno ancor più grave di quello iniziale. Gli spazi vuoti che si vengono a creare sono poi riempiti da tessuto connettivo a formare una sorta di cicatrice che impedisce a sua volta la funzionalità muscolare. Nei pazienti colpiti da DMD e BMD, questo tipo di processo di danneggiamento muscolare che si autoalimenta si ripete in maniera costante finché non si arriva alla morte della totalità delle cellule muscolari.

Ciò che differenzia la distrofia muscolare di Duchenne da quella di Becker è la quantità di distrofina funzionale prodotta nelle cellule muscolari:
un’assenza completa della proteina determina la forma di Duchenne, mentre un’alterazione quantitativa o qualitativa di minore entità conduce alla distrofia di Becker. La BMD è una forma più lieve caratterizzata da un esordio tardivo e da un decorso meno definito. Un’ulteriore differenza tra la DMD e la BMD si riscontra nell’incidenza, la BMD ha un’incidenza nettamente minore, inferiore a 1 caso su 20.000, circa sei volte meno della DMD.  


Ereditarietà
Le distrofie muscolari di Duchenne e Becker sono malattie genetiche, ma non sempre con origine ereditaria. Se in una famiglia si sono già verificati casi di DMD o BMD, grazie alla consulenza genetica è possibile conoscere con precisione il rischio di trasmettere ai propri figli queste patologie. Ad esempio nel caso più comune, con un padre sano ed una madre portatrice, la probabilità di avere un figlio ammalato è del 25%. Se si tratta di un maschio ci saranno infatti il 50% di possibilità che risulti ammalato, mentre se si tratta di una femmina il 50% di possibilità che risulti portatrice sana. Tuttavia, circa un terzo dei casi DMD/BMD nasce da madri che non sono portatrici. In questo caso, la malattia è dovuta a una nuova mutazione del gene per la distrofina, un errore accidentale che non è trasmesso dai genitori.
Nel caso in cui la DMD/BMD sia presente in famiglia è importante ricorrere ad una consulenza genetica e alla diagnosi prenatale. Questa è possibile a partire dalla decima settimana di gravidanza mediante villocentesi o successivamente con amniocentesi.

La diagnosi
Non si sa con certezza quando inizia clinicamente la malattia. Durante i primi anni di vita, l'iter diagnostico è spesso avviato in seguito a un riscontro, da parte dei genitori o del pediatra, di alcuni sintomi che si presentano come campanello di allarme. Altre volte invece l’avvio dell’iter diagnostico è scaturito dal casuale riscontro, a seguito di un prelievo di sangue, di un incremento di creatinfosfochinasi (CPK) e di transaminasi (AST e ALT) nel sangue del bambino. Un incremento di CPK e transaminasi nel sangue è un dato indicativo per un danno muscolare e per una possibile malattia neuromuscolare ma non è assolutamente specifico. Infatti può anche essere l’indicatore di un semplice affaticamento muscolare o di altre patologie quali epatiti, malattie infettive, malfunzionamento della tiroide e altro ancora.

La diagnosi di DMD/BMD può essere accertata solo da biopsia muscolare e da diagnosi molecolare.
La biopsia muscolare è un’analisi invasiva che viene effettuata prelevando un pezzettino di tessuto muscolare dal paziente, solitamente dal quadricipite, e serve ad osservare l’eventuale presenza di fibre muscolari degenerate e quantificare la distrofina presente nel muscolo. Da quest’analisi è già possibile definire se si tratta di DMD (la forma più grave) o BMD (la forma più lieve).
La diagnosi molecolare è invece un’analisi non invasiva ed è condotta su di un semplice prelievo di sangue. Quest’ultima permette di stabilire con esattezza le eventuali mutazioni a carico del gene per la distrofina. Fino a qualche anno era difficile riuscire ad avere una diagnosi molecolare accurata e ciò richiedeva spesso tempi molto lunghi. Per fortuna negli ultimi anni sono state sviluppate metodologie sempre più accurate per la diagnosi molecolare, che sono di largo impiego anche in Italia, e ora si ricorre sempre più spesso direttamente all’analisi molecolare evitando l’invasività di una biopsia muscolare.

I dati acquisiti nel mondo sulle diagnosi molecolari hanno rivelato la frequenza delle principali mutazioni che causano la distrofia di Duchenne. Nel 60% circa dei casi la DMD è causata da ampie delezioni del gene della distrofina (ovvero perdita di parti intere del gene), nel 10% da duplicazioni (ripetizioni di parti del gene), nel 20% da piccole mutazioni puntiformi basate sulla sostituzione di alcune lettere del codice genetico con altre, e nel 13% da mutazioni nonsenso (una mutazione che causa l’interruzione anticipata della lettura del gene e quindi la non funzionalità della distrofina).


ALLA RICERCA DI UNA CURA
 
Per curare la DMD si deve in qualche modo bloccare o almeno diminuire la degenerazione muscolare in corso. Al momento l’unica terapia universalmente utilizzata si basa sui farmaci corticosteroidi (cortisone) che agiscono prevalentemente intervenendo sui processi antiinfiammatori e riducendo le reazioni immunitarie coinvolte nella progressione della malattia. L’esperienza suggerisce che si riesce a vedere un buon miglioramento della performance fisica del paziente se il trattamento farmacologico viene iniziato al momento, o prima, che il bambino raggiunga il plateau delle sue capacità fisiche, una condizione che si raggiunge tipicamente verso i 4-6 anni. Nonostante l’aiuto fornito dai corticosteroidi, questi non rappresentano una terapia in grado di risolvere la malattia piuttosto un trattamento palliativo che rallenta, in maniera provvisoria, la degenerazione muscolare. Inoltre, i pazienti che prendono corticosteroidi devono fare i conti con tutta una serie di gravi effetti collaterali quali cambiamenti comportamentali, riduzione della crescita, aumento eccessivo di peso, osteoporosi, intolleranza al glucosio, cataratta ecc…

Una cura vera e propria, quella che arresta la malattia, deve ancora arrivare ed è nei laboratori e nelle strutture sanitarie di tutto il mondo che biologi e medici stanno facendo la staffetta per una corsa contro il tempo. I ricercatori hanno capito che la strategia migliore è di attaccare la DMD su diversi fronti, sviluppando approcci diversi con bersagli diversi che vadano tutti a confluire sullo stesso obiettivo: il muscolo scheletrico, la sua forza e la rigenerazione cellulare. I diversi progetti di ricerca, basati per lo più su nuovi approcci biotecnologici, sono studi di vasta portata che coinvolgono diverse nazioni nel mondo. Si va dalla messa a punto di terapie geniche mirate, all’utilizzo di cellule staminali, fino allo sviluppo di moderni farmaci biotech. Il concetto è che se non si riesce a trovare “la cura” si studiano terapie diverse che agiscano ad hoc sul tipo specifico di danno genetico, puntare quindi alle “terapie personalizzate”.  

La terapia genica
Questo approccio mira ad agire direttamente sul danno genetico. Per questo scopo sono state ideate molecole innovative progettate per effettuare complesse “operazioni molecolari” mirate al ripristino, totale o parziale, della funzionalità della distrofina all’interno delle cellule muscolari.
Attualmente l’unica molecola basata sulla terapia genica che abbia ricevuto autorizzazione al commercio in Europa è stata sviluppata da PTC Therapeutics, una società biofarmaceutica americana. Il trattamento si basa su un approccio terapeutico che mira ad agire direttamente sul danno genetico. Si tratta di una piccola molecola, denominata ataluren, che interviene sui meccanismi molecolari coinvolti nella lettura dei geni e nella loro traduzione in proteine. Ataluren agisce esclusivamente sulle mutazioni nonsenso, una mutazione che causa l’interruzione anticipata della lettura del gene e quindi la non funzionalità della distrofina. Il primo studio clinico con ataluren è stato avviato nel 2008 e lo scorso ottobre sono stati annunciati i risultati positivi di uno studio clinico di fase 3 su 228 ragazzi affetti da DMD. Nel 2014 ataluren aveva già ottenuto l’autorizzazione condizionale all’immissione in commercio dall’EMA (Agenzia Europea del Farmaco) per l’uso nei pazienti DMD deambulanti, con mutazione nonsenso, dai cinque anni in su. (Per saperne di più clicca qui).
Un limite in questo tipo di approcci risiede nel fatto di essere mutazione-specifici, ovvero possono essere applicati solo ad alcune mutazioni ben precise e quindi a una limitata percentuale di pazienti affetti da DMD.

Diversa è la strategia dell’exon skipping, tradotto letteralmente come “salto dell’esone”. Quando una mutazione cambia lo schema di lettura del gene della distrofina non vi è più la produzione della proteina funzionale e ciò causa l’insorgenza della DMD. Il corretto schema di lettura può essere ristabilito eliminando direttamente uno o più esoni (parti del gene) corrispondenti alla regione in cui è presente la mutazione. Alla fine di questa “operazione molecolare”, la distrofina prodotta sarà più corta del normale ma, se il pezzo eliminato non corrisponde a una regione cruciale, la proteina potrà ancora svolgere la sua funzione muscolare. Il primo studio clinico sull’exon skipping è stato avviato nel 2006 e oggi sono diversi i gruppi di ricerca e le aziende farmaceutiche e biotech, tra cui Biomarin e Sarepta Therapeutics, che si stanno impegnando su questo fronte. Al momento, le molecole più promettenti in questo campo sono drisapersen ed eteplirsen, entrambe in fase 3 di studio clinico e per le quali sono già iniziate le richieste per l’iter autorizzativo per l’immissione in commercio. La terapia basata sull’exon skipping non può essere considerata una cura vera e propria, piuttosto un modo per convertire la distrofia di Duchenne in quella di Becker, ovvero un modo per ridurre la gravità della distrofia.

La terapia cellulare
Il presupposto di partenza è di fornire direttamente all’organismo cellule staminali in grado di generare cellule muscolari sane con la conseguente produzione di distrofina funzionale. In questo campo, uno degli studi più avanzati a livello internazionale è quello italiano portato avanti dal Prof. Giulio Cossu. La sperimentazione clinica, avviata nel 2011, rappresenta il primo tentativo al mondo di trapianto eterologo di cellule staminali su pazienti DMD (le staminali vengono prelevate da un donatore sano immunocompatibile e iniettate nel paziente). La ricerca è basata sull’utilizzo dei mesoangioblasti, particolari cellule staminali normalmente associate ai vasi sanguigni e capaci di rigenerare il tessuto muscolare danneggiato e ripristinare la sua funzionalità. Lo studio clinico, di fase 1/2, è stato condotto su 5 pazienti DMD e ha dato buoni risultati. Questa strategia terapeutica è molto interessante ma ha degli svantaggi. Innanzitutto, trattandosi di un trapianto eterologo i mesoangioblasti devono essere prelevati da un donatore immunocompatibile, in secondo luogo ciò richiede di fare sul paziente una terapia immunosoppressiva per tutta la vita. Per superare quest’ostacolo, uno studio di ricerca di base sta puntando a una strategia che combini tecniche di terapia genica con l’utilizzo di cellule staminali muscolari. L’idea è di effettuare un trapianto autologo utilizzando le cellule staminali del paziente stesso corrette geneticamente con il gene della distrofina.
Il punto di forza della terapia cellulare è la sua universalità, non è mutazione-specifico ed è potenzialmente applicabile a tutta la popolazione Duchenne.

La terapia farmacologica
Questo filone di ricerca clinica raggruppa tutta una serie di approcci diversi che hanno come obiettivo finale quello di sviluppare delle molecole, viste come moderni farmaci biotech, che possano combattere il processo infiammatorio e degenerativo della Duchenne. Questi nuovi farmaci sono ideati per sostituire, o limitare, l’impiego dei corticosteroidi la cui assunzione determina effetti collaterali spesso importanti.
In quest’ambito una scommessa tutta italiana è rappresentata da givinostat, un inibitore delle istone deacetilasi (HDAC), che permette al tessuto muscolare di rispondere al danno provocato dalla Duchenne con un meccanismo rigenerativo in grado di ridurre il processo d’infiammazione e di fibrosi tipico della patologia. Givinostat è una molecola sviluppato dall’azienda farmaceutica italiana Italfarmaco e l’idea di puntare su un inibitore delle istone deacetilasi nasce da anni di ricerca di base condotta dal team di Pier Lorenzo Puri. Un esempio di ricerca traslazionale italiana di eccellenza. Givinostat ha superato positivamente una sperimentazione clinica di fase 2 e sulla base di questi risultati Italfarmaco sta progettando un nuovo studio clinico da condurre a sostegno di una domanda di autorizzazione del farmaco.

Un altro promettente farmaco è l’idebenone.
Si tratta di una piccola molecola prodotta da Santhera Pharmaceuticals, un’azienda farmaceutica svizzera, che agisce aiutando il processo di produzione di energia all’interno della cellula. I risultati di un ampio studio clinico di fase 3 hanno dimostrato i benefici del farmaco in termini di rallentamento della perdita di funzionalità respiratoria in pazienti DMD che non siano sottoposti alla terapia con corticosteroidi. Santhera ha avviato un dialogo con le autorità regolatorie per procedere al più presto con l’iter di approvazione del farmaco per la Duchenne.
La comunità Duchenne sta puntando l’attenzione anche su tadalafil, un farmaco sviluppato dall’azienda farmaceutica americana Eli Lilly, già approvato dall’FDA (Food&Drug Admninistration) per il trattamento della disfunzione erettile e per l’ipertensione polmonare arteriosa. Studi clinici di fase 2 hanno dimostrato che tadalafil è in grado di migliorare la circolazione sanguigna con effetti rilevanti sul tessuto muscolare e, per l’inizio 2016, si attendono i risultati di un ampio studio di fase 3.

 

 

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