Il composto antitumorale è già stato sperimentato per l'Alzheimer con esiti controversi. Ora, nuovi test preclinici sembrano riaffermare la sua possibile efficacia.

Il farmaco bexarotene, già approvato come terapia anticancro negli Stati Uniti e in Europa, sembra poter contrastare lo stadio preliminare della reazione a catena tossica che conduce alla morte delle cellule cerebrali nella malattia di Alzheimer (AD). Il dato proviene da un recente studio preclinico che è stato condotto da alcuni dei più prestigiosi istituti scientifici europei, tra cui l'Università di Cambridge (Regno Unito). Gli esiti dell'indagine sono stati riportati sulla rivista Science Advances e sembrano suggerire che il bexarotene sia potenzialmente in grado di ridurre il rischio di Alzheimer nei pazienti predisposti a sviluppare la patologia.

La malattia di Alzheimer (AD) è un disturbo neurodegenerativo che insorge in tarda età ed emerge come il risultato di un accumulo di sostanze proteiche dannose presso il sistema nervoso centrale (CNS). Questi aggregati tossici, per lo più composti da proteina beta-amiloide (A-beta), sono alla base del graduale deterioramento delle cellule nervose che caratterizza la patologia.

Analizzando il meccanismo d'azione del farmaco bexarotene, un team di ricercatori appartenenti alle Università di Cambridge, di Lund (Svezia) e di Groningen (Olanda), ha scoperto che questo composto sembra in grado di arrestare il primo stadio del processo molecolare che porta alla morte delle cellule cerebrali nei pazienti con AD. Questo specifico passaggio è denominato 'nucleazione primaria' e si verifica quando determinate proteine, subendo un anomalo 'ripiegamento' strutturale, finiscono per aggregarsi in una sorta di sottili filamenti, le fibrille amiloidi, o in ammassi più piccoli chiamati oligomeri. Questi ultimi, in particolare, risultano essere fortemente tossici per le cellule nervose e si pensa siano i principali responsabili dei danni cerebrali tipici dell'Alzheimer.

Negli ultimi decenni, la ricerca scientifica si è focalizzata sullo sviluppo di nuove terapie per l'AD dirette a contrastare la formazione e la proliferazione degli oligomeri di beta-amiloide. Tuttavia, i molteplici approcci tentati si sono finora rivelati infruttuosi, soprattutto per l'imprecisa conoscenza dei meccanismi molecolari che determinano lo sviluppo della malattia. Per questo motivo, gli autori del nuovo studio si sono avvalsi di uno specifico test ideato e sviluppato dal Prof. Tuomas Knowles, dell'Università di Cambridge, e dalla Prof.ssa Sara Linse, dell'Università di Lund. Grazie a questo innovativo metodo d'indagine, i ricercatori sono stati in grado di caratterizzare in modo accurato le diverse fasi che compongo il processo di aggregazione di sostanze amiloidi.

Utilizzando il test messo a punto da Knowles e Linse, i ricercatori hanno analizzato una serie di composti farmaceutici per valutarne la potenziale efficacia nel trattamento dell'Alzheimer. La prima molecola identificata con successo è stata il bexarotene, un farmaco approvato per la terapia del linfoma cutaneo a cellule T. Questo composto, sperimentato su un modello di verme nematode geneticamente modificato per imitare la malattia di Alzheimer, ha dimostrato di poter contrastare il processo di nucleazione primaria e di prevenire la formazione di oligomeri tossici, ritardando la comparsa dei sintomi della patologia.

Sebbene il bexarotene sia già stato investigato per il trattamento dell'AD con risultati contraddittori e non definitivi, i ricercatori, basandosi su quanto riscontrato nella loro indagine, hanno avanzato l'ipotesi che i precedenti esiti deludenti derivino dal fatto che il farmaco sia stato utilizzato in modo non adeguato, ossia come rimedio ai danni neuronali provocati dall'Alzheimer. Gli scienziati hanno infatti notato che il bexarotene non era in grado di comportare nessun beneficio se somministrato agli esemplari di vermi nematodi già colpiti dai sintomi della patologia. In base a quanto riscontrato nello studio, il farmaco potrebbe rivelarsi di potenziale efficacia per la prevenzione dell'Alzheimer piuttosto che per il trattamento della degenerazione neuronale associata.

D'altro canto, il lavoro dei ricercatori europei potrebbe avere importanti ripercussioni anche per tutti coloro che hanno ormai sviluppato la malattia. Gli autori dell'indagine hanno infatti spiegato che i metodi utilizzati per la valutazione del bexarotene hanno permesso di identificare diversi composti chimici che potrebbero rivelarsi in grado di rallentare la progressione dell'Alzheimer in pazienti che manifestano evidenti sintomi della patologia.

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